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detto intorno alla costituzione dell'usufrutto si applica dunque al diritto d'uso. Vi ha tuttavia una differenza. A termini dell'articolo 579, l'usufrutto è costituito dalla legge o dalla volontà dell'uomo. Abbiamo l'usufrutto legale: esiste pure un uso stabilito dalla legge? Lasciamo da parte i diritti d'uso nei boschi e nelle foreste, che traggono la loro prima origine dalle consuetudini. Si domanda se il codice civile stabilisca un uso legale come stabilisce un usufrutto legale. Vi sono autori i quali pretendono che gli articoli 1465 e 1570 consacrino questa forma dell'uso. La donna maritata sotto il regime della comunione dei beni ha diritto, quando la comunione è sciolta per la morte del marito, di prendere gli alimenti sulla massa della comunione durante il termine di tre mesi e quaranta giorni che le è accordato per fare inventario e deliberare. L'articolo 1465 aggiunge ch'essa non può essere obbligata al pagamento di alcuna pigione per aver abitato, durante questi termini, in una casa di spettanza della comunione od appartenente agli eredi del marito. Se la casa che abitavano i coniugi al tempo dello scioglimento della comunione era da essi posseduta a titolo di affitto, la moglie non dovrà neppure, per l'anzidetto periodo di tempo, alcuna somma per la pigione, ma questa dovrà prelevarsi dalla massa. Abbiamo trascritto l'articolo, poichè basta leggerlo per convincersi che la legge non stabilisce a favore della vedova una servitù di uso. Essa accorda alla vedova due diritti. Anzitutto un diritto agli alimenti. È questo un credito alimentare, ben diverso, come abbiamo detto, da un diritto reale. I termini dell'articolo lo provano; la vedova prende i suoi alimenti sulle provviste esistenti, e, in mancanza, facendo un prestito per conto della massa comune. Occorre domandare se un prestito è un diritto reale? Ora, il prestito è considerato alla stessa stregua del diritto di prendere gli alimenti in natura sulle provviste esistenti: dunque entrambe le vie per procurare gli alimenti alla vedova sono un credito. Ciò non è af fatto contestato. Forse che l'abitazione dal codice accordata alla vedova avrebbe i caratteri di un diritto reale? Vi è un caso in cui la negativa è evidente. I coniugi occuparono una casa a titolo di inquilini; in che consiste allora il diritto della vedova?

Essa non contribuirà al pagamento della pigione, dice l'art. 1465; come vi sarebbe un diritto reale là dove tutto è diritto di credito? Se la vedova occupa una casa dipendente dalla comunione od appartenente agli eredi, quale sarà il diritto di lei? Essa non deve alcuna pigione, dice il testo. Ecco ancora una volta un'espressione che indica un diritto di credito: la vedova è affittuaria, senza che sia tenuta a pagare una pigione. Del resto, nell'articolo 1465 non vi è una parola che possa far supporre essere la vedova tenuta alle obbligazioni ed agli oneri dell'usuario. È dunque un semplice credito alimentare che la legge le accorda durante alcuni mesi.

Lo stesso è a dirsi del diritto che la legge conferisce alla vedova ch'era maritata sotto il regime dotale. A termini dell'articolo 1570, essa ha la scelta d'esigere gl'interessi della sua dote durante l'anno di lutto, ovvero di farsi fornire gli alimenti per questo stesso periodo a spese della eredità del marito. Qualunque sia la sua scelta, essa ha diritto all'abitazione ed agli abiti di lutto; è l'eredità che sopporta le spese, senza imputarle agli interessi che le sono dovuti. Non è mestieri di dire che gli interessi della dote sono un credito puramente personale. Ebbene, la legge considera alla stessa stregua gli alimenti che l'eredità del marito deve fornire alla sua vedova : ecco incontestabilmente un credito alimentare. Forse che l'abitazione che gli eredi del marito debbono alla moglie sarebbe un diritto reale? La legge, ancora una volta, considera alla stessa stregua l'abitazione e gli abiti di lutto; e gli abiti di lutto non danno certo origine ad un diritto reale. Del resto nè l'art. 1570 nè l'art. 1465 fanno la minima allusione alle obbligazioni ed agli oneri che incomberebbero alla vedova se fosse usuaria. Il solo scopo che il legislatore si è prefisso in entrambi i casi, è stato quello di assicurare l'esistenza alla vedova; per raggiungere questo scopo, un semplice credito, senza alcun onere, senza obbligazicni era di certo preferibile ad un diritto reale i cui beneficii potrebbero essere assorbiti dai pesi. La questione è tuttavia controversa. Si obbietta che l'art. 625 combinato coll'art. 579 porta alia conseguenza che deve esistere un uso legale; ora, gli articoli 1570 e 1465 sono i soli che stabiliscano un uso od un'abitazione. Tale argomento sembra decisivo. Noi rispondiamo che l'articolo 625 suppone solamente che possa esservi un uso legale, ma una supposizione non è una legge. Non vi è uso legale senza legge; ora, non vi è legge che stabilisca un uso a titolo di diritto reale. Ciò risolve perfettamente la questione (1).

106. Può l'uso stabilirsi mediante la prescrizione? A rigor di principio, tutte le cose che sono in commercio possono acquistarsi mediante prescrizione: sarebbe quindi necessaria una disposizione espressa che derogasse al diritto comune perchè l'uso non potesse usucapirsi. Ora, eccezione alcuna nella legge non v'ha; al contrario, l'art. 625 implica che l'uso, a somiglianza dell'usufrutto, possa essere stabilito per usucapione. Su questo punto non v'è alcun dubbio. Qualche difficoltà sorge invece circa le condizioni richieste perchè si verifichi l'usucapione. Non vi è prescrizione acquisitiva senza possesso. Se Î'usuario possiede, è certo ch'egli prescriverà, secondo il diritto comune, sia mediante l'usucapione di dieci o vent'anni, sia mediante la prescrizione trentennale. Ma quid juris se è il

(1) AUBRY e RAU, t. II, p. 431 e nota 1, e le autorità che in diverso senso vi sono citate.

proprietario quegli che possiede e gode fornendo all'usufruttuario i frutti cui egli ha diritto? Forse che colui il quale riceve i frutti possiede? La questione è dubbia per l'usuario: egli non ha il diritto di locare, non possiede dunque mai coll'intermezzo dell'affittuario. Ma non si può dire che il proprietario possiede in nome dell'usuario? E tal possesso non deve profittare a costui? Tale è l'opinione di Duvergier e di Demolombe, che è la vera, a parer nostro (1).

107. Abbiamo detto che l'usufrutto è un diritto essenzialmente vitalizio, che si estingue necessariamente colla morte dell'usufruttuario, o dopo trent'anni, quando è stabilito in favore di una persona morale (n. 51, 53). E egli lo stesso dell'uso? A rigor di principio, bisognerebbe rispondere negativamente. Infatti, l'usuario, almeno in via generale, non acquista tutti i frutti del fondo, ma soltanto quelli che gli occorrono pei suoi bisogni e per quelli della sua famiglia. Non esiste dunque per l'uso il motivo che vieta la sostituzione in perpetuo dell'usufrutto; la proprietà non diverrebbe inutile per essere gravata d'un diritto d'uso. Lo prova l'uso dei boschi e delle foreste, il quale è perpetuo, senza che possa dirsi che il diritto di proprietà sia posto nel nulla. Ma l'applicazione del principio non è scevra da difficoltà. Supponiamo anzitutto che l'uso sia costituito a titolo gratuito; sarà questo il caso più frequente, presupponendo esso ordinariamente un atto di beneficenza: il donatario od il legatario dovrà essere concepito al momento del contratto od all'epoca della morte del testatore; non si potrebbe dunque costituire l'uso a favore dell'usuario e di tutti i suoi discendenti. Rimane l'ipotesi della costituzione a titolo oneroso. Si potrà per convenzione stipulare il diritto d'uso per l'usuario ed i suoi eredi in perpetuo? A termini dell'art. 1122 si presume che ciascuno abbia stipulato per sè e per gli eredi. Noi abbiamo insegnato che questa disposizione non poteva essere invocata in materia d'usufrutto, perchè l'usufrutto non è trasmissibile agli eredi (2). Se si ammette che l'uso è trasmissibile, nulla impedisce di stipularlo in favore dell'usuario e dei suoi discendenti. Occorrerà una clausola espressa, poichè per diritto comune l'uso si estingue colla morte dell'usuario. Se l'uso si estendesse a tutti i frutti del fondo, sarebbe un vero usufrutto, e per conseguenza bisognerebbe applicare i principii che abbiamo or ora ricordati (3).

(1) DUVERGIER SU TOULLIER, t. II, p. 199, nota. DEMOLOMBE, t. X, p. 72, n, 760. In senso contrario, AUBRY e RAU, t. II, p. 531, nota 2, e gli autori che citano. (2) Vedi il tomo VI dei miei Principii, n. 354.

(3) DURANTON, t. V, p. 24, n. 14 e p. 46, n. 31. PROUDHON, t. VI, p. 55, n. 2795.

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108. L'art. 628 stabilisce anzitutto questo principio: « I diritti di uso e di abitazione sono regolati dal titolo che li stabilisce, e ricevono maggiore o minore estensione a seconda delle disposizioni in esso contenute ». Questa norma è di una grande importanza. Essa non significa solamente che le parti interessate possono derogare alle regole che il codice Napo. leone stabilisce sul diritto di uso. Ciò è di diritto tanto per l'uso quanto per l'usufrutto; il legislatore non aveva dunque bisogno di dirlo (1). L'art. 628 ha una portata maggiore. Il codice non ammette servitù personali; esso accorda ai proprietari una libertà quasi illimitata di costituire sui loro fondi quelle servitù che credano convenienti; «purchè, tali servitù non siano imposte a favore della persona » (art. 586). Bisogna tuttavia fare eccezione a questo divieto per le tre servitù che il codice civile conserva: l'usufrutto, l'uso e l'abitazione. E quest'eccezione non è limitata all'usufrutto ed all'uso, così come sono formulati dalla legge; in materia di uso, le parti hanno le medesime amplissime facoltà che l'art. 686 loro accorda in materia di servitù reali. Arriviamo quindi alla conseguenza che dalla proprietà può essere staccata, a titolo di servitù personale, quella qualsiasi forma d'uso che il proprietario ha diritto di fare della cosa che gli appartiene. Ordinariamente i diritti di uso, diversi da quello organizzato dalla legge, diconsi usi irregolari, ma l'espressione non è esatta. Infatti, essa sembra dire che si tratti di eccezioni alla regola, mentre è piuttosto questione di applicazione della norma scritta nell'art. 628. In virtù di questo principio noi abbiamo deciso che il diritto di caccia può essere smembrato dalla proprietà, a titolo di diritto d'uso, cioè come servitù personale (2). È vero che questo diritto nulla ha più di comune con l'uso regolato dal capitolo II del titolo dell'Usufrutto. Ma l'art. 628 non dice che l'uso che le parti possono costituire debba essere l'uso così come è concepito dal codice, salve le speciali modificazioni; esso dice in termini assoluti che è il titolo che regola il diritto d'uso, è quindi in potere delle parti di smembrare dalla proprietà qualunque specie d'uso per farne una servitù personale.

Questa interpretazione è ammessa generalmente, e non la si. discute neppure, quasi fosse un punto fuori affatto di dubbio. Vi è però un serio motivo di ritenere la soluzione non del tutto

(1) Vedi il tomo VI dei miei Principii, n. 354.

(2) Confronta DEMOLOMBE, t. XII, p. 190, n. 687; DUCAURROY BONNIER e Roug STAIN, p. 226, n. 331.

scura, ed è che, nell'antico diritto, la parola uso aveva un significato preciso, quello di un usufrutto limitato ai bisogni dell'usuario; è di questo diritto che tratta il capitolo II del nostro titolo. Ora, è ben evidente che vi sono usi, come il diritto di caccia, che nulla han di comune con i bisogni dell'usuario. Si potrebbe dunque osservare contro l'opinione generale che essa va oltre la volontà del legislatore. Ciò che ci obbliga ad ammetterla, è che tale teorica si trova in armonia con un principio che domina la materia dei diritti reali. Noi abbiamo insegnato, ed è con noi la giurisprudenza, che i proprietari possono costituire diritti reali diversi da quelli che sono consacrati dal codice Napoleone. La loro libertà non è limitata che dal divieto di creare servitù personali, ma questa limitazione non è assoluta, poichè gli autori del codice hanno conservato le servitù personali più usitate ed hanno concesso alle parti interessate di costituire quei diritti d'uso che loro sembrino convenienti. Di tal guisa si concilia l'articolo 686 col principio che permette al proprietario di disporre della propria cosa nel modo più assoluto. L'interpretazione larghissima che noi diamo all'art. 628 ha pure un fondamento razionale. Il padrone d'un fondo può trarne tutto l'utile, tutto il diletto che è consentito dalla natura della cosa; egli può smembrare altresì questo diritto di usare e di godere, costituendo un usufrutto; può pure stabilire un usufrutto limitato ai bisogni dell'usuario; perchè non potrebbe costituire un uso ancor più ristretto, limitato cioè, al tale o tal altro utile che il fondo procura? Il diritto di caccia è pur compreso nell'usufrutto: perchè non potrebbe formare oggetto di una concessione speciale, nel modo stesso che il proprietario può concedere il diritto di prendere i tali prodotti in un bosco? Dal momento che si ammette che il diritto d'usare può essere staccato dalla proprietà, non vi è più ragione di limitare al proprietario la facoltà di accordare le concessioni che meglio gli convengono. Come egli, costituendo un usufrutto, può fare il più, potrà pur fare il meno concedendo un diritto d'uso qualunque a titolo di diritto reale.

109. Quando il titolo non specifica l'estensione dei diritti d'uso e di abitazione, essi sono regolati secondo le norme del codice civile. Gli articoli 630 e 633 stabiliscono la regola generale: << Chi ha l'uso dei frutti d'un fondo, non può percepire se non ciò che è necessario pei suoi bisogni e per quelli della sua famiglia. Il diritto di abitazione si limita a ciò che occorre per l'abitazione di colui al quale venne accordato un tale diritto, e della sua famiglia ». L'applicazione di questa regola non dà luogo ad alcuna difficoltà per ciò che riguarda il diritto di abitazione. Non è più lo stesso quando l'uso cade sopra un fondo che produce frutti. L'art. 630 può essere inteso in due modi differenti: restrittivamente, nel senso che l'usuario può prendere solo i frutti che gli sono necessari; estensivamente,

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